Novità in materia di licenziamento disciplinare: la sentenza penale d’assoluzione vale come prova

Novembre 5, 2023
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licenziamento disciplinare

Una novità di particolare rilievo, sul piano giurisprudenziale, è quella riguardante l’istituto del licenziamento disciplinare. Laddove subentri una sentenza penale d’assoluzione del lavoratore, per i fatti contestati nell’addebito disciplinare da parte del datore di lavoro, la sentenza medesima vale come prova da opporre al provvedimento.

A stabilirlo la Cassazione, con la sentenza n. 26042/2023. La Cassazione ha inteso, nella propria pronuncia, la sentenza penale d’assoluzione per il fatto o i fatti contestati, come una prova atipica della quale avvalersi nel procedimento dinanzi al giudice civile. Procedimento avente ad oggetto il licenziamento disciplinare del lavoratore.

La fattispecie oggetto di pronuncia della Cassazione

Vediamo adesso l’ambito specifico sul quale è intervenuta la pronuncia della Cassazione. La stessa Corte è stata chiamata ad emettere un giudizio di legittimità, inerentemente al caso di un lavoratore addetto all’Ufficio Spedizioni, licenziato poiché accusato della falsificazione di alcuni documenti d’accompagnamento della merce.

Si trattava, in particolare, di Documenti di Accompagnamento Semplificato, e in questo modo il lavoratore avrebbe sottratto, stando all’accusa, diversi litri di carburante. Ora, il dipendente in questione, licenziato dalla società, era stato imputato per gli stessi fatti in un procedimento penale, al cui termine è stato assolto.

A quel punto, l’ormai ex dipendente, aveva impugnato il provvedimento di licenziamento davanti al Tribunale di competenza. Proprio quest’ultimo ha annullato il licenziamento disciplinare, emettendo un ordine di reintegrazione del lavoratore sul posto di lavoro.

La società, che aveva licenziato il proprio dipendente, aveva quindi impugnato l’ordinanza del Tribunale dinanzi alla Corte d’Appello del territorio. Quest’ultima si era però pronunciata in senso sfavorevole a tale impugnazione, confermando l’esito della precedente sentenza di primo grado.

Sentenza di primo grado nella quale si era fatta valere, l’assoluzione sotto il profilo penale, come rilevante sul provvedimento disciplinare che era stato assunto nei confronti del dipendente. Proprio perché, in estrema sintesi, il dipendente era stato licenziato per i fatti contestati.

Ma quegli stessi fatti, avendo costituito oggetto d’imputazione penale in un procedimento giudiziario, ed essendone stato assolto l’imputato, sulla parte scagionata non dovrebbero dunque essere fatti gravare degli atti (il licenziamento, in questo caso) dipendenti da quegli stessi fatti. È quanto si evince dalle motivazioni fornite da entrambe le corti, prima del ricorso dinanzi la Corte di Cassazione.

Le motivazioni addotte dalla parte ricorrente per il ricorso in Cassazione

Possiamo ora considerare, nel dettaglio, quelle che sono le motivazioni alla base della pronuncia della Suprema Corte di Cassazione. La società in questione vi aveva fatto ricorso, ritenendo errata la considerazione della Corte d’Appello contenuta nella relativa sentenza. Motivazione secondo cui l’assoluzione nel processo penale può assumere la valenza di giudicato, nell’ambito del procedimento civile vertente sul licenziamento disciplinare.

A detta della ricorrente, inoltre, nello stabilire ciò, la Corte d’Appello non avrebbe in alcun modo accertato la sussistenza o meno dei fatti contestati al lavoratore, e che hanno condotto al provvedimento disciplinare. Sempre secondo la motivazione posta dalla ricorrente, la sentenza d’assoluzione sul piano penale, ritenuta risolutiva anche nel dibattimento sul licenziamento, in realtà non avrebbe potuto rivelarsi come tale, ma solamente esser fatta valere in qualità di sentenza passata in giudicato, in procedimenti civili o amministrativi diversi da quelli aventi ad oggetto un licenziamento. Sulla base del parere della ricorrente, dunque, la sentenza penale emessa non avrebbe potuto assumere una validità risolutiva nell’ambito di un procedimento riguardante un provvedimento di licenziamento, qual era il caso di specie.

La non ammissibilità delle eccezioni sollevate e le relative premesse giuridiche

Ma, per contro, la Cassazione non ha ritenuto ammissibili le eccezioni sollevate dalla ricorrente. Bisogna, ad ogni modo, menzionare delle importanti premesse. È pur vero che, riguardo alla rilevanza di una sentenza penale nell’ambito di un procedimento disciplinare, non si esclude una nuova valutazione dei fatti, così come accertati dal giudizio penale. Si tratta comunque di un principio che si applica una volta accertata, sempre in sede penale, la diversità dei presupposti per quanto riguarda le responsabilità penali delle parti.

A parte ciò, bisogna considerare che, una subentrata assoluzione penale del soggetto sottoposto a provvedimento disciplinare, non farebbe venir meno automaticamente l’imputabilità nel medesimo procedimento disciplinare. Qualora la condotta non abbia delle implicazioni penali, potrebbe ad ogni modo essere soggetta a sanzioni disciplinari per altre ragioni. Come, ad esempio, un atteggiamento che infranga delle disposizioni del regolamento interno alla ditta in cui si presta servizio.

Bisogna anche considerare un ulteriore importante presupposto, quello attinente al procedimento civile. Qualora il suddetto procedimento sia attivato in conseguenza di un’infrazione del lavoratore sul piano penale (infrazione ancora da accertare giudizialmente), il giudice del processo civile non può non basarsi anche sulla sentenza volta ad accertare la sussistenza o meno dei fatti di natura penale. Gli stessi fatti contestati nel procedimento che presiede, per l’impugnazione del licenziamento.

Quella stessa sentenza penale, passata in giudicato, diventa in altre parole un presupposto direttamente applicabile per il giudizio sulla responsabilità del lavoratore, sul piano disciplinare. Viene meno così, per il provvedimento emesso dalla società datrice di lavoro, il principio della giusta causa del licenziamento. Proprio perché il licenziamento era strettamente correlato ad una presunta condotta, illecita penalmente, da parte del dipendente.

Le motivazioni della Cassazione alla luce delle disposizioni di legge vigenti

Essendoci tali presupposti di diritto da considerare, la pronuncia della Cassazione, che non ha ritenuto ammissibili le motivazioni addette dalla parte ricorrente, viene fatta risalire alla conformità tra quanto la sentenza impugnata dispone (il giudizio della Corte d’Appello) e il diritto vigente nell’ordinamento. Condizione che si evince dal dettato di cui all’art. 384, comma 4, c.p.c., il cui testo afferma: “Non sono soggette a cassazione le sentenze erroneamente motivate in diritto, quando il dispositivo sia conforme al diritto”.

La Corte di Cassazione, secondo il medesimo dettato normativo, si limita solamente ad una correzione della motivazione alla base della sentenza (laddove ne ricorrano i presupposti). Rilevante è altresì la disciplina che regola i rapporti tra giudizio penale e civile, riportata sul Codice di Procedura Penale. In particolare, per come la stessa disciplina stabilisce, la sentenza d’assoluzione penale detiene un effetto preclusivo con riguardo al giudizio civile, al verificarsi di determinate condizioni.

Innanzitutto, la sentenza emessa in sede penale dovrebbe riportare l’accertamento sull’insussistenza del fatto, o sull’insussistenza della partecipazione dell’imputato al fatto medesimo. Mentre la condizione non prevista, e in quanto tale ininfluente per una preclusione sul giudizio civile, è l’assoluzione penale per insufficienti elementi di prova a carico dell’imputato, o riguardante la commissione stessa del fatto. Rimane quindi fuori dalla fattispecie considerata, l’assoluzione penale pronunciata in conformità dell’art. 530, comma 2, del Codice di Procedura Penale (c.p.p).

Il rimando alla norma menzionata viene effettuato dagli artt. 652 e 654 c.p.p, rispettivamente per il giudizio civile vertente su danni, e per tutti gli altri procedimenti sul piano civile. È bene ribadire come sia importante, per il verificarsi della preclusione operata, che il procedimento disciplinare verta sugli stessi fatti materiali già oggetto del procedimento penale passato in giudicato. Il procedimento disciplinare non ha invece preclusioni in merito ad una diversa qualificazione giuridica dei fatti intervenuti.

Il giudice civile tiene dunque conto della sentenza penale, e in maniera vincolante, al verificarsi delle suddette preclusioni. Può inoltre, anche se non vi è alcun vincolo, acquisire le prove raccolte nel procedimento penale passato in giudicato, in qualità di elementi acquisiti con le dovute garanzie di legge. Può poi confrontare, gli elementi così acquisiti, con gli elementi probatori emersi nel corso del dibattimento civile che presiede. Per contro, il giudice civile potrebbe ritenere sufficienti le prove emerse nel corso del medesimo processo, non ritenendo opportuno raccogliere gli atti del procedimento penale, e non essendo tenuto a farlo.

Le conclusioni della Corte di Cassazione nel caso di specie

Nel caso in trattazione, la sentenza d’assoluzione intervenuta sul piano penale, nel procedimento parallelo, accerta l’insussistenza della partecipazione da parte dell’imputato ai fatti oggetto di contestazione. Trattasi a pieno titolo, per l’imputato, di un’assoluzione per non aver commesso il fatto, con formula piena. Una sentenza intervenuta al termine di un processo nel quale sono state valutate tutte le prove sui fatti e le responsabilità sui fatti stessi.

Per come affermato dalla Cassazione, ci sono di conseguenza tutti i presupposti a determinare l’accertamento, per il giudice del procedimento civile, dell’insussistenza riguardante l’addebito disciplinare consistente nel licenziamento. Licenziamento che, per tale via, è stato così legittimamente annullato fin dalla sentenza di primo grado. Avevamo operato riferimento, in apertura, al fatto che quanto accertato nell’altra sentenza, quella penale, sia riconducibile ad una prova atipica utilizzata nell’altro dibattimento, quello civile.

Ma anche con riferimento alla prova atipica, la Corte di Cassazione si è pronunciata molto recentemente con la sentenza n. 9507/2023, escludendo una tassatività delle tipologie attinenti ai mezzi di prova. Il giudice può pertanto legittimamente basarsi sulle prove atipiche, qualora queste forniscano elementi di giudizio per il caso di specie, e non siano smentite dal raffronto critico operato giudizialmente nel corso dello stesso processo. Si tratta di un raffronto (quello rispetto alla prova atipica) non censurabile in sede di legittimità. Esso è l’ultimo tassello che ha contribuito alla formazione della decisione finale da parte della Suprema Corte.

Nel caso che trattiamo, la Cassazione ha indicato come non appropriata una rivalutazione in sede di legittimità della prova atipica (principio che si applica quindi anche al giudizio di legittimità della Corte d’Appello). In quanto, essendo atipica, è emersa non dallo stesso procedimento, bensì da un procedimento parallelo, di natura penale. In pratica, non si può impugnare una sentenza civile per la prova di un altro processo, della quale la stessa ha preso atto.

In ultima istanza, la Suprema Corte di Cassazione ha così emesso una sentenza di rigetto del ricorso. Addebitando altresì, alla ricorrente, le spese processuali per il giudizio emesso.

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